domenica 2 dicembre 2007

>> Talenti di Marca

Talenti di Marca

Nuovi Film/Makers, nuovi registi, nuovi videoartisti marchigiani. Dopo la conclusione dell’originale Festival di Macerata sulla multimedialità, I.Mode Visions, che ha fatto registrare l’attenzione dei media nazionali, una rappresentativa della produzione d’arte digitale è stata inserita nella mostra alla Mole Vanvitelliana di Ancona, “Talenti di marca”, promossa dall’Accademia di Belle Arti di Macerata e di Urbino.
Ne parliamo con il prof. Massimo Puliani - direttore dell’ Istituto di Comunicazione Multimediale e Spettacolo dell’Accademia di Macerata, che dopo l’esperienza di organizzatore della rete pesarese dello Stabile delle Marche concentrerà sempre più le sue attenzioni nell’ambito della attività legate alla scuola e formazione.
“L’arte multimediale – sostiene Puliani, - non vuol essere una fuga nella fantascienza, ma vuol affrontare il sistema dei segni del presente e quei linguaggi che sono espressi dalla sensibilità e dalla percezione di chi oggi opera nell’arte. La multimedialità è quindi intesa come crocevia fra tradizione e innovazione, sviluppo dei linguaggi cinematografici, teatrali e televisivi, nuova modalità di comunicazione. Ecco spiegato il motivo di aver dedicato le 4 edizioni del festival maceratese – ma anche a quello di Cagli - al premio Nobel per la Letteratura, drammaturgo e regista televisivo Samuel Beckett, a Pasolini (scrittore, poeta e regista), ad Artaud (pittore, attore, filosofo) e quest’anno Werner Herzog (regista, documentarista, scrittore).
I.Mode Visions è un’occasione per fare il punto sull’arte elettronica, sulle trasposizioni del linguaggio, sul futuro del digitale senza però sottrarlo agli aspetti storici e culturali della multimedialità”.
“L’edizione appena conclusasi è stata una kermesse d’Autore – dichiara Puliani – con giovani artisti che provengono dai laboratori multimediali dell’Accademia intenti a proporre performance e cortometraggi, con i Maestri Registi e artisti internazionali del digitale e della fotografia e della interattività multimediale”.
Di rilievo quest’anno la vittoria di due giovani registe: Sara Montironi, con Decriptazione di un segreto, miglior opera per la sensibilità sospesa fra surrealismo e no-future sostenuta da una ricerca cromatica e performativa. Vivien Hulbert ,premio per la Ricerca e Innovazione con La caduta di Troy opera poetica visiva e narrativa marcata dalla torbida musicalità di Tom Waits e per la ricerca delle architetture dei paesaggi”.
“Nella interessante mostra alla Mole di Ancona, curata dai professori Paolo Benvenuti e Massimo Ceccarelli, fra le opere dei trenta giovani artisti provenienti dall’Accademia di Belle Arti di Macerata e dall’Accademia di Belle Arti di Urbino, sono presenti 8 produzioni multimediali firmate da M.Menco, S.D’Aurizio, M.Malvaso, R.Giuliani, G.Foresi, M.Failla, M.Violini, L.Vagni.”
Per l’edizione dl 2008, il prof. Puliani d’intesa con la Direttrice dell’Accademia, Anna Verducci, e di Pier Paolo Loffreda (che insegna Mass Media e Storia del cinema a Macerata) ha già preso contatti per creare convenzioni con due case di produzione di cinema digitale, operanti in Francia e in Germania, in modo di dare un respiro europeo alle opere realizzate dai film-makers dell’Accademia.

>> Omaggio a Vittorio Storaro

Omaggio a Vittorio Storaro

In principio fu la luce. Cominciamo dall’etimo, dalla forma più antica a cui si può risalire nella storia della parola Fotografia: dal Greco, come sempre. Il Fotografo è colui che scrive, racconta con le luci. Photòs (luce) Gràphos (segno Scritto). In Vittorio Storaro c’è da aggiungere la parola Kine perché c’è il movimento. Quindi la definizione esatta è quella americana Cinematographer. In Italiano potremmo dire Fotografo Cinematografico o Cinefotografo. Ma per rafforzare ancora il senso autorale, possiamo senz’altro dire che l’accezione più calzante per Vittorio Storaro è: Autore della fotografia cinematografica.

Come Josef Svoboda (1920-2002), architetto alchimista della luce e dello spazio, maestro di meraviglie scenografiche e una delle figure che hanno contribuito a cambiare l'idea stessa di rappresentazione nella seconda metà del secolo scorso aprendo i suoi interessi ai linguaggi multimediali polyvisionarietà e cineteatrali,
Vittorio Storaro ha portato significativi contributi concettuali ed operativi nell’area della scrittura della luce, in particolare nella produzione cinematografica, ma anche in quella televisiva e teatrale.

Tre premi Oscar nel 1980 -’82-‘88 rispettivamente per “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola “Reds” di Warren Beatty e “L’ultimo Imperatore” di Bernardo Bertolucci con il quale ha firmato altri capolavori, da “L’ultimo Tango a Parigi” a “Novecento” al “Te nel Deserto”.
Gran Premio per la tecnica a Cannes nel 1998 con 'Tango' di Carlos Saura.
E vorrei ricordare nella vasta filmografia, il teatrale “Orlando furioso” del '69 per la regia di Luca Ronconi che girato in 16mm (Storaro indica la data di inizio nel '72 ) verrà proiettato (ridotto in due episodi il 2° e il 5°) al cinema nel '74 e trasmesso per intero in televisione in 6 parti nel '75, e il recente “Caravaggio” (2007) trasmesso in tv in due parti, per la regia di Angelo Longoni, ancora una sfida sulla dicotomia luce/ombra (potremmo dire: una fissazione estetica di Storaro!).

I film che hanno segnato le tappe del suo percorso di ricerca sono (secondo quanto scritto da Storaro) "LA LUNA" (del 1978), diretto da Bernardo Bertolucci, dove approfondisce gli studi sulla SIMBOLOGIA DEL COLORE,
"REDS" che si pone come punto cruciale nell’innovazione dello Sguardo del Film dall'interno, cioè dalla parte dei suoi protagonisti con la rappresentazione grafica di una pianta per visualizzare la vita del personaggio principale,
e "Un sogno lungo un giorno" –uscito nel 1981, quindi dopo “Apocalypse now” che già aveva straordinariamente fotografato quell’immortale personaggio del colonnello Kurtz proveniente dalle pagine di Cuore di Tenebra diJoseph Conrad.

“Lo studio sulla fisiologia dei colori – asserisce Storaro - mi ha permesso di capire qual è la reazione fisica che noi abbiamo di fronte ad un colore. Quando diciamo colore ci riferiamo ad una parte visibile della luce, una parte di energia che vibra su una certa lunghezza d'onda; questa energia, come questa luce, mi tocca o non mi tocca a secondo di come la posiziono, di come la filtro, di come lei si esprime”. (1)

Nel 1983, in "Arlecchino" (prod.ne RAI) diretto da Giuliano Montaldo, Storaro affronta il "Cinema Elettronico". Il duello IMMAGINE OTTICA - IMMAGINE ELETTRONICA, e l'utilizzazione delle due immagini ad unisono divenne per lui un fatto fondamentale fonte di una nuova passione.

Durante la realizzazione del lungometraggio "Ladyhawke" (sempre del l’83) diretto da Richard Donner, Storaro sentì che le sue ideazioni Cinematografiche non si potevano più limitare a un solo fatto luministico, ma si dovevano integrare maggiormente nella Scenografia e nel Costume.
I Color Filter Degradè divennero uno strumento di pittura e l'uso della Console a Controllo Dimmer uno strumento di scrittura nel rappresentare il cammino della Luce.
Quel cammino, che viene raccontato in tre pubblicazioni edite dalla elegante casa editrice Electa, riunite sotto tema ricorrente “ Scrivere con la luce” e cioè: La luce, I Colori e Gli Elementi, dove l'autore raccoglie le sue riflessioni sulla cinematografia, sulla sua esperienza e sul suo lavoro.
Anche la sua recente esposizione fotografica iniziata nel 2004 a Verona e passata poi in Spagna, Svizzera, Grecia e nel 2006 per la Fondazione Bandera a Busto Arsizio, è una summa di "Scrivere con la luce", doppie impressioni fra fotografia e cinematografia.
La mostra riveste un duplice interesse: tecnico e narrativo. Il passaggio dall’immagine in movimento, che caratterizza la cinematografia, all’immagine fissa. Una selezione di 115 immagini realizzate con impressioni fotografiche sovrapposte tratte dai più celebri lavori di Storaro, con la riproduzione fotografica di quarantuno dipinti che hanno costituito fonte d’ispirazione per l’artista: da Caravaggio a Bacon, da Carpaccio a Botticelli.

Nella prima sezione della mostra viene analizzato il tema della luce, attraverso il rapporto tra ombra, penombra, luce artificiale e naturale, magistralmente ripresi nelle immagini di "Apocalypse now, Giovinezza giovinezza, Novecento" e altri celebri capolavori cinematografici del maestro.
Nella seconda sezione, l’attenzione è focalizzata sul tema dei colori, caratterizzanti le diverse fasi della vita. Il nero come colore del concepimento, il rosso come colore della nascita, il giallo come colore della coscienza etc.
La terza sezione analizza l’equilibrio tra i vari elementi naturali della vita attorno a cui ruota il rapporto tra terra, acqua, aria, fuoco, inconscio/cosciente
“Penso – dichiara Storaro - che questo tipo di immagini abbiano una correlazione con la pittura molto forte. Ecco perché le foto della mostra le ho volute mettere su un cavalletto, in modo che possano essere viste una per una, nel contesto di un film della mia vita”.
Sono queste le parole più appropriate di chi ha segnato la storia del Cinema, di chi oggi è qui a raccontarcela, come... Un sogno lungo un giorno.


Massimo Puliani
Laudatio in occasione del premio Svoboda a Macerata, Accademico Honoris Causa.
24/02/2007


1)
http://www.electaweb.com/electa/ita/etc_libri/21-421-1.jsp

sabato 1 dicembre 2007

>> Strehler e Svoboda

1. SESSANTA ANNI del PICCOLO TEATRO DI MILANO

E’ il primo esempio di organizzazione stabile della scena in Italia.

Fondato a Milano nel 1947 dal Comune di Milano, il Piccolo è guidato da Paolo Grassi e Giorgio Strehler, poco più che ventenni, uniti da un'amicizia, da un identico amore per il teatro e da comuni scelte sociali, politiche ed estetiche. Erano quelli gli anni della “ricostruzione”, della voglia di “rinascere” e di uscire dalla tragica esperienza della guerra e del fascismo.

Al “grido” di un teatro d'arte per tutti, il Piccolo Teatro di Strehler/Grassi scrive il suo Manifesto che ne suggella la nascita: repertorio internazionale, ma allo stesso tempo legato alle proprie radici

Si afferma dunque in Italia, per la prima volta, l'idea di un teatro inteso come bene reale dei cittadini, con scelte profondamente innovatrici per quegli anni che privilegiano l'affermazione della regia contro le modalità teatrali di stampo ottocentesco.

Accanto alla drammaturgia di tutto il mondo prende corpo al Piccolo Teatro un'estetica severa ma poetica, che, sull'esempio dei grandi rinnovatori della scena, da Copeau a Reinhardt, pone in primo piano la formazione di un nuovo attore all'interno di quell'organismo articolato che è uno spettacolo.

Il regista Strehler tiene saldamente in pugno la produzione creativa, diviene il “grande organizzatore dei segni dello spettacolo”. Del resto, proprio l'altissima qualità estetica unita alla novità di un'organizzazione per i tempi rivoluzionaria, costituiranno i due cardini dell'eccellenza del Piccolo Teatro e del suo trasformarsi in esempio trainante per la scena italiana.

Paolo Grassi in un articolo su “l'Avanti” del 25 aprile del 1946 tende a definirne le linee:

“Il teatro come un pubblico servizio necessario - come i vigili del fuoco e la metropolitana”. Raccoglie queste linee e le enuclea, in modo sistematico, nei suoi diversi scritti come testimonianze di un deprimente stato dell'arte ed anche come dichiarazioni di una lucida volontà tesa a promuovere un rinnovamento della scena nazionale utilizzando come strumento d'indagine e di riflessione pubblica, la palestra del quotidiano socialista “Persuadére e trasformare – osserva Nello Rassu in un saggio del 2001 dal titolo “Organizzazione, sovvenzioni e pubblico negli anni della Fondazione del Piccolo Teatro di Milano” - sono i due verbi e le due azioni che sottendono alla pratica dello scrivere di Paolo Grassi.

Persuadere che i tempi sono maturi per un cambiamento, che lo slancio progressista della Liberazione va perseguito in campo teatrale rinnovando il repertorio e trasformando il teatro all'antica italiana in un teatro d'impresa al passo coi tempi”

Quando il Piccolo Teatro della città di Milano apre per la prima volta il suo sipario su L'albergo dei poveri di Gorkij, in sala erano presenti tutti coloro che a due anni dalla fine della guerra lo avevano sostenuto.

Il sindaco di allora era Antonio Greppi, socialista e commediografo.

La nascita di quella piccola sala in via Rovello di cinquecento posti fu proprio nel luogo in cui le milizie fasciste di Ettore Muti (una lapide sulla facciata lo ricorda) si erano macchiate di delitti atroci contro i partigiani.

Per una maggiore riflessione sulla funzione e il ruolo di un teatro pubblico prendiamo a titolo di esempio il programma della prima stagione: accanto a Gor'kij a Calderón de la Barca, il Goldoni di Arlecchino servitore di due padroni e il Pirandello dei Giganti della montagna e la drammaturgia contemporanea di Salacrou ( Le notti dell'ira ) a cui si deve una delle più belle definizioni che siano mai state date di questo teatro: «non ha di piccolo che il nome».Teatro d’Autore e teatro di Regia, commedia e dramma: un repertorio per un pubblico di cultura, popolare.

Ecco cosa si legge in un passo del manifesto programmatico del Piccolo:
"Questo teatro nostro e vostro, il primo teatro comunale d'Italia è promosso dall'iniziativa di taluni uomini d'arte e studio, che ha trovato consenso e aiuto nell'autorità fattiva di chi è responsabile della vita cittadina. Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni."

Sessanta anni di attività che hanno segnato non solo la storia del teatro italiano ma che costituiscono un modello a cui non possiamo non fare riferimento, un modello che può essere preso come insegnamento. Il Piccolo è ambasciatore della cultura italiana sui palcoscenici di tutto il mondo e dal 1991 per decreto ministeriale e stato nominato Teatro d'Europa.



2. STREHLER e SVOBODA
Strehler incontra l “Architetto Josef Svoboda, prestigioso maestro di meraviglie scenografiche”.

come lo definì Angelo Maria Ripellino (da una citazione del mio studio Svoboda Magika!)

alla fine degli anni Ottanta per l’allestimento del Faust.

Entrambi furono rapiti da quel capolavoro assoluto qual è la tragedia di Goethe.

Opera incommensurabile per estensione, profondità, varietà di registro e di stile e complessità strutturale. “Opera mondo” potrebbe essere considerata per Strehler che forse non nascondeva il fatto che potesse essere un’intenzione artistico-testamentaria.
Leggendo gli Appunti di Regia sul Programma di Sala della ripresa di Faust/Frammenti Parte Prima (20 gennaio 1990) non si può non prendere atto di una dichiarazione di intenti che pone l’inscenamento in un contesto ben più ampio, problematico, rischioso e “compromettente” della semplice fortuna di una Stagione di prosa: “…una ricerca che diventa spettacolo nuova per la sua forma, traccia di una elaborazione in atto che forse - spero - permetterà al pubblico di sentirsi partecipe di un travaglio di interpretazione e non soltanto spettatore di teatro.
Il Teatro Studio è nato per questo e in queste forme di spettacolo-ricerca trova la sua ragione d’essere. Questa ricerca-spettacolo in vitro, vista nel suo farsi e disfarsi, non avrà una cifra unitaria: sarà un vero e proprio studio in cui si proporrà il mescolamento dei linguaggi, e la spettacolarità più diretta:
"Il teatro italiano è in un momento straordinario. O si riordina, o trova una sua sistemazione legislativa equa, o trova i suoi sostegni, equilibrati ma necessari, dai poteri pubblici per difenderlo nel trionfo dei mezzi di comunicazione di massa che tendono a distruggerlo ed insieme a questo un pezzo, forse l’ultimo, della nostra libertà interiore; o esso è condannato, al silenzio o al volgare o alla vanità fine a se stessa di qualche interprete.
Quel movimento iniziato da Paolo Grassi e da me, da Visconti, da Costa, Silvio D’Amico e tanti altri per un teatro italiano più degno e più nobile, che sia un teatro nazionale nel coro dell’Europa, si chiuderà ritornando più indietro rispetto al punto in cui noi siamo partiti. Ad ognuno le sue responsabilità. Noi abbiamo assunto e siamo pronti ad assumere come sempre tutte le nostre, preoccupati soprattutto dei valori della poesia, della ricerca della nuova teatralità e di nuove strade e metodi di consociazione del pubblico.
Il pubblico è oggi sempre più distratto e travolto da troppo cattivo teatro che gli viene offerto, da troppi deteriori prodotti televisivi che quotidianamente lo sconvolgono nel profondo, senza che se ne accorga.
A questo pubblico noi chiediamo un grande sforzo, invece, intellettuale e sociale, e lo chiediamo proponendogli non spettacoli soltanto, ma progetti culturali, cercando di stimolare in lui curiosità e domande. Abbiamo bisogno di non essere soli: questo vorrei dire al nostro pubblico di ogni sera nella nostra società così sconvolta e spesso così disinteressata e sola. Difficile parlare di questo spettacolo".

Fra coloro che comprendono immediatamente la prospettiva di Strehler è senz’altro lo scenografo Josef Svoboda:
“…quasi alla fine della mia carriera, ho lavorato con Giorgio Strehler a Milano. Lo conoscevo di fama, ma le nostre strade si sono incrociate solo per allestire il capolavoro di Goethe, Faust. Io ero – si capisce - molto curioso di incontrare Giorgio Strehler, e fui ben lieto quando, nel 1989, ne ebbi finalmente l’occasione. Si tratta infatti di uno di quei registi che dominano totalmente l’arte del teatro, così propriamente definita dai tedeschi, con termine intraducibile, Gesammtkunstwerk. È come se in lui si sommassero, ad altissimo livello, tutte le professioni teatrali: e questo spiega perché egli scelga con tanto rigore i suoi collaboratori per i singoli progetti, e ponga come condizioni imprescindibili la competenza e il talento”.
In accordo con la visione registica del Progetto Faust, Svoboda assume un incarico di scenografo di grande responsabilità denotativa, connotativa e “ideologica”:
“Il nostro lavoro iniziò con uno scambio di idee molto ampio, che andò precisandosi man mano che ci avvicinavamo al punto: e non mancarono, anzi furono fonte di ispirazione reciproca, i momenti in cui ci trovammo a incrociare le spade. Ebbi modo di apprezzare anche un aspetto molto positivo della personalità di Strehler, ovvero la sua capacità di scartare senza rimpianti idee che inizialmente aveva giudicato magnifiche, quando queste alla prova dei fatti si rivelavano drammaturgicamente improduttive. A ogni incontro mi presentavo con un gran numero di schizzi e di modelli, ma ero consapevole di non aver ancora trovato la giusta soluzione. Lo spazio del Teatro Studio, dove palcoscenico e platea tradizionali sono integrati e si collocano al centro dell’ellisse dei sedili, richiede la creazione di un rapporto di partnership tra i due settori. Quando me ne resi conto, capii che era questa l’idea dalla quale dovevo partire, e Strehler fu immediatamente d’accordo.
Realizzai così la spirale che dall’alto dominava la platea: come dalla spirale era nato il mondo, così dalla mia, da cui via via fluivano tutti gli elementi scenici, nasceva il mondo dello spettacolo. Adottammo questa soluzione - che appariva di grande semplicità, benché fosse vero il contrario - anche per la seconda parte del Faust, nel 1991. E ancora una volta verificai che quando un regista accoglie e concepisce la scenografia così come fece Strehler, ovvero quale strumento attraverso il quale esprimere fino in fondo le proprie idee, si crea un rapporto di collaborazione ottimale, un accordo vero e profondo tra le due diverse discipline teatrali”.
Sulla Spirale e le sue caratteristiche persino tecniche, non solo sulla Spirale-come-simbolo, Strehler e Svoboda si confrontano a lungo e questo segno e oggetto scenico diviene geroglifico dell’idea registica. Strehler rimprovera Svoboda di “aver pensato ad un errore” immaginando la Spirale in movimento; che si abbassi si inclini nel corso dello spettacolo a configurare spazi, atmosfere e situazioni diverse.
“Non può diventare oggetto utilitaristico”. Ciò in effetti produrrebbe quadri circoscritti ed evidentemente definiti; momenti, “spettacoli-spettacoli” estranei all’intento di Strehler. C’è poco e moltissimo nel nostro semplice e spoglio teatro, c’è poco "spettacolo spettacolo" e pur tuttavia mi sembra - e non è sembrato solo a me - che brilli sempre il lampo della teatralità lungo tutto l’arco della rappresentazione.I segreti dello spazio teatrale; Ubulibri, Milano 1997)

Masolino d’Amico (“La Stampa”), pur non del tutto convinto dall’interpretazione di Faust, riconosce a Strheler:
“un senso di incanto, affettuoso illusionismo in ogni regia. Fu un impareggiabile direttore di attori, padrone egli stesso della tecnica quanto bastava a spiegare perfettamente quello che voleva. Forse non convinse quando generosamente assunse egli stesso la gravosa parte di protagonista del pur sontuoso "Faust" di Goethe, 1989, 1991, ma di recente era riapparso al suo meglio, come didatta, nel meraviglioso recupero (1997) di "Elvira o l'educazione teatrale", dalle lezioni di Jouvet. Più di tutto fu un eloquente e talvolta logorroico ma invariabilmente affascinante esploratore di testi, instancabile nel lavoro di scavo e sempre disposto a ricredersi, a rimangiarsi il già fatto, sapendo che il meglio era una dura conquista sempre un passo più in là.
Visse il teatro come una religione, sul palcoscenico cercava l'assoluto, e lo trovava.”
[1]
Cfr. Franco Moretti; Opere mondo – saggio sulla forma epica dal “Faust” a “Cent’anni di solitudine”; Einaudi, Torino 1994

[2] Le note di regia a cui si fa riferimento (a differenza degli Appunti di Regia di seguito qui pubblicati) sono relative allo spettacolo presentato nella stagione 1989/’90.

[3] Giorgio Strehler; Appunti di Regia del Faust/Frammenti parte prima – Dal Programma di Sala 1990/91; 20 gennaio 1990; in Archivio On-Line del Piccolo Teatro di Milano; www.piccoloteatro.org

[4] J. Svoboda; I segreti dello spazio teatrale; Ubulibri, Milano 1997.

[5] J. Svoboda; op. cit.