martedì 10 novembre 2009

>>"Una dialettica sulla messa in scena" di Antonio Borriello

Krapp’s Last Tape: molto Wilson poco Beckett

Ermeneutica di una messinscena

di Antonio Borriello

La messinscena de L’ultimo nastro di Krapp di Robert Wilson, vista al Mercadante di Napoli, non “c’azzecca” assolutamente niente con Samuel Beckett. È tutt’altra cosa. Ne ho viste di rappresentazioni distanti, ma un testo così interamente stravolto, nel modo più gratuito tradendo i contenuti di una delle più intense e suggestive pièces del grande dubliner di Parigi, mai. Lo spettacolo dello straordinario regista di Einstein on the beach già prima dell’apertura del sipario preannuncia delle inspiegabili sorprese. Infatti, sotto un fascio di luce alla ribalta c’è un non chiaro e robusto plico di fogli o chissà. Al levar della tela il pubblico è assalito da fulmini, saette e fragorosi tuoni e contestualmente da un crescente scroscio di pioggia. Estranea e incomprensibile aggiunta che è sottolineata anche da effetti illuminotecnici e che andrà avanti per quasi tutto lo spettacolo! La scenografia, priva di fughe, rimanda ad uno spazio che rievoca un garage, visto che in alto ha una sequenza di lucernari a forma rettangolare e sul fondale una grossa grata-saracinesca. Ci sono due uscite: una dietro la grata e l’altra è indicata da una forte luce sulla quinta di destra. Ai lati grossi banconi coperti da scatole e altro. Niente di quanto descritto è previsto nel testo di Beckett. Al centro della scena una scrivania con sei cassetti, tre a destra e tre a sinistra, rivolti al pubblico (in Beckett un piccolo tavolo solo con due cassetti). La lampada, che dovrebbe illuminare il piano e l’attore, spesso si accende e si spegne. Come del resto i lucernari, a volte la luminosità è alta, altre bassa. Il costume: un ampio pantalone con pieghe regolari. Camicia e giubbotto ordinati, sgargianti calzini rossi vermiglio e pantofole: perfetto contrario in Krapp’s Last Tape. Il trucco rimanda ad un giovane Harry Langdon: faccia e mani bianche, lucidi capelli ben pettinati con tanto di piega a lato. La postura è attiva ed energica, altro che vecchio sfatto come indica Beckett. Il gesto, i movimenti e le azioni, a tratti robotizzati, sovente accennano e rinviano a inaccettabili passi di danza, con sculettamenti verso il pubblico! La recitazione è mescolata da miagolii amplificati da effetti sonori che si confondono con il registrato delle bobine. Tantissimi i rumori fuori scena, da un frequente scampanio a tonfi e sparate di decibel, in particolare quando Krapp-Wilson estrae e sbuccia la banana, impugnandola a mo’ di pistola verso il pubblico. In quel momento lo scroscio della pioggia fa rimpiangere i concerti heavy metal. Una vera mitragliata. La traduzione in italiano che scorre in alto sull’arlecchino è priva delle dettagliate e rigorose didascalie, nonché delle pause e i silenzi voluti da Beckett. Inoltre rivela molteplici tagli e inesattezze per quanto riguarda i segni di interpunzione. Gravissime omissioni. Quanto in sintesi descritto è in assoluta contraddizione con l’opera dell’Autore. Con Krapp, Beckett scrive (e mette in scena) un testo denso di poesia, di amore e di voglia di vivere, anche se… “la Terra potrebbe essere disabitata”. Un testo colmo di tanti rinvii alla Bibbia, alla Cabala, al manicheismo, al mistero dei Numeri. Un’opera di pochissime pagine di cui la stragrande maggioranza sono ferree consegne per l’interprete, lo scenografo, il costumista e i tecnici delle luci e del suono. Uno scritto minuzioso, perfetto come uno spartito musicale. In proposito, consiglio di leggere quanto ha riportato Deidre Bair in Samuel Beckett. Una biografia (trad. it. Garzanti, 1990, pp. 573-574). La studiosa nel suo ponderoso studio scrive che “secondo Beckett, il miglior spettacolo teatrale è quello in cui non vi sono attori o registi, ma soltanto l’opera. Interrogato sul modo di rendere possibile un simile teatro, Beckett ha risposto che l’autore ha il dovere di cercare l’attore migliore, cioè quello che esegue alla perfezione le sue istruzioni e che ha la capacità di annullarsi completamente nell’opera”. Ed è indispensabile questo stato fisico e psicologico per interpretare Beckett. Sempre nel testo della Bair si ribadisce il concetto di una condizione ancora più estrema voluta da Beckett: “La miglior opera teatrale possibile è quella in cui non ci sono attori, ma soltanto il testo. Sto cercando il modo di scriverne una”. Lo farà con Non io, in cui il corpo dell’attore è inesistente, ridotto ad una Bocca. Ebbene, tutto questo non è neanche minimamente apparso dallo spettacolo di Wilson. Uno straordinario performer, eccezionale artista, ma con Beckett, in questo spettacolo, non ho visto alcuna affinità. Anche se nella “fotocopia” distribuita in guisa di programma di sala l’americano scrive che “quando dirigo uno spettacolo creo una struttura nel tempo. Solo nel momento in cui tutti gli elementi visivi sono al loro posto viene creata una cornice che gli attori devono riempire. Se la struttura è solida, allora si può essere liberi al suo interno. In questo caso la struttura è data per la maggior parte dal testo e spetta a me trovare la mia libertà all’interno della struttura di Beckett”. Ed ancora, sempre nella “fotocopia”, nella sinossi si legge che per Krapp “è il settantesimo compleanno”: un errore gravissimo. È il 69novesimo. Un numero preciso e denso di significati in questa pièce. A mio convinto avviso al Mercadante non ho visto nulla di Beckett, di Krapp. Intanto, il pubblico ha applaudito e le recisioni hanno riportato qua e là nei quotidiani partenopei quanto letto nella “fotocopia” con accenni di consensi. Ebbene, personalmente desidero dissentire, ovviamente con motivi e ragioni e l’ho fatto anche alla fine dello spettacolo. In generale una lettura personale di una pièce, che dia conto della traduzione, della lingua, del suono, della cultura, dei gusti dell'interprete può andare bene anche una rivisitazione, penso alla drammaturgia classica di Shakespeare, Molière, Brecht, ma per le opere beckettiane il discorso muta radicalmente. La fedeltà al testo deve svelarsi in una sorta di felice consustanziazione scenica. Ricordo che Beckett stesso, in alcuni casi, ha imposto la sospensione di messinscene estranee alle sue indicazioni. Non a caso Beckett passa alla realizzazione delle sue opere, proprio come i grandi Euripide e Shakespeare, Pirandello ed Eduardo. Le minuziose e lunghe didascalie beckettiane sono poi un ulteriore testo drammaturgico. O meglio sono il testo stesso. Vedi quelle maniacali di Krapp, colme di suggerimenti spazio-temporali, nonché di precise attenzioni al costume, al trucco, agli oggetti (tanti), ai gesti (tanti e precisissimi), al battito o meno di ciglia. E allora non sarebbe più corretto scrivere su manifesti e quant’altro che si tratta di un adattamento o una riduzione?